ATTRAVERSANDO IL FOYER

Andare a teatro, oppure a un concerto, preferire un film oppure un balletto, c’è un filo conduttore nelle scelte anche quando sembrano casuali. Così è stato per me in queste ultime settimane. Prima il Requiem per L. scritto da Fabrizio Cassol per la compagnia di danza di Alain Platel alle Fonderie Limone, poi Antonio e Cleopatra di Simon Godwin al National Theatre di Londra e ancora il film Bohemian Rhapsody di Dexter Fletcher e infine il concerto Gershwin e dintorni con Gabriele Naretto per la stagione di Errepomeriggi. Quattro eventi completamente diversi l’uno dall’altro eppure tanto vicini.
Prima vediamo il confine tra teatro e cinema. Dovrei dire per prima cosa cosa intendo per teatro. In questo caso non il testo scritto ma quello rappresentato sul palcoscenico; è la messa in scena che fa il teatro perché il teatro è dato dall’animazione; lo spettacolo consiste nel rendere tacitamente noto il pensiero col gesto, con un susseguirsi di visioni, di immagini esplicite, liberandosi dalla soggezione del testo, per servire in modo esclusivo all’arte pura del teatro. “Il cinema – invece come dichiarava Luigi Chiarini – può, oltre che esprimere, come il teatro, attraverso l’opera di poesia, dare anche l’interpretazione del modo con cui lo spettacolo stesso deve essere seguito.” La visione nuova è che il cinema ha a disposizione la macchina da presa che si sostituisce a quello che nello spettatore è l’occhio. Un occhio che può allontanarsi a qualsiasi distanza dall’oggetto, per abbracciare il campo visivo più grande possibile, e che può avvicinarsi al più piccolo particolare per concentrare su di esso tutta la propria attenzione. Questo occhio può rimbalzare da un punto all’altro dello spazio senza che tutti questi movimenti provochino il minimo sforzo da parte dello spettatore. Anche il microfono diventa un orecchio attento e capace di udire, con la stessa facilità, sia il più tenue mormorare umano sia il potente fischio di una sirena lontana chilometri.
Temi del teatro di Shakespeare
Sono argomenti frequenti nel teatro di Shakespeare: l’amore (passione disperata in Otello, passione sensuale in Romeo e Giulietta), la lotta per il potere, la morte, il carattere fallace e la fugacità della vita, la caducità della realtà con i frequenti motivi del fosco intervento della morte e dell’indistinto che dominano il cammino mortale dell’uomo. Pensiamo al celeberrimo monologo di Amleto “Essere o non essere, questo è il problema”. Scena prima scena, atto terzo.
Il contenuto della lotta per il potere è ripetuto nell’ Amleto, nel Macbeth e nel Re Lear forse perché l’autore vive in un’epoca in cui domina la monarchia assoluta che, se da un lato tutela l’ordine e il benessere, dall’altro provoca una grande smania di autorità e di prestigio, nonché antagonismo, rivalità, invidia.
Altri temi fondamentali sono il mostrare l’ampia gamma della sfera affettiva e dei sentimenti umani nella loro molteplicità eterogenea, senza dimenticare le questioni morali e psicologiche e anche gli stati particolari della mente quali le contrapposizioni nel comportamento: l’inquietudine in Macbeth, la follia in Amleto. Dalla tradizione popolare e medievale Shakespeare estrapola poi la caratteristica fantastica e irrazionale gli spettri in Amleto e Macbeth, le streghe in Macbeth, i folletti ne La Tempesta, fate ed elfi nel Sogno di una notte di mezza estate. Figure soprannaturali che raffigurano l’inquietudine e gli errori dell’animo umano. L'”eroe” si presenta come una figura articolata che rimane uguale a se stessa e molto spesso fuoriesce virtuosamente arricchita dopo tragici lotte di coscienza e sconfitte subite a opera degli eventi.
Il fato della tragedia classica, forza soprannaturale, superiore anche agli dei, capace di determinare la sorte degli uomini, nel teatro di Shakespeare dona il posto all’inclinazione, alle alternative e alle lotte intestine dell’individuo. Le figure femminili assumono una notevole importanza: sono dotate di autodeterminazione e di grande soggettività. Le loro caratteristiche e i loro comportamenti sono vari, molteplici: la tenera Giulietta, l’innocente Desdemona, l’intelligente Porzia. A volte sono coinvolte nella guerra per il potere come la sinistra Lady Macbeth o le due perfide figlie di Re Lear.
Shakespeare è figlio del Rinascimento in quanto nelle sue opere interpreta l’uomo che dichiara se stesso, la propria creatività e il proprio antropocentrismo contro gli ostacoli posti dalla realtà e dal destino, ma è anche esponente della nuova sensibilità barocca che pone in evidenza gli strappi della coscienza dell’individuo, l’insicurezza degli ideali, la volubilità della sorte, il mistero imperscrutabile della vita accompagnato da un senso di smarrimento esistenziale.
I drammi di Shakespeare si interrogano quindi sulla consonanza dell’uomo contro l’assurdità della vita stessa, sull’ambiguità profonda e inconfessabile dell’animo umano, senza mai giungere ad una verità unica capace di rimuovere ansie e insicurezze. C’è inoltre un dubbio di base, cioè se la vita, oltre ad essere breve, fragile e minacciata dalla continua presenza della morte, sia anche un sogno, un’illusione: nel quinto atto Macbeth sostiene che “la vita è solo un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi cade nell’oblio: la storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di foga, che non significa nulla”. Nel quarto atto de La Tempesta il principe Prospero dice: “noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra breve vita è cinta di sonno”.
I personaggi del drammaturgo inglese tuttavia lasciano aperta la questione in quanto non forniscono una risposta definitiva alla domanda ricorrente nell’età barocca: dove inizia e termina la relazione realtà-illusione
ANTONIO E CLEOPATRA
Antonio, triumviro di Roma insieme ad Ottaviano e a Marco Emilio Lepido, si è fermato in Egitto dopo essersi innamorato della regina Cleopatra. Antonio riceve la notizia che sua moglie, Fulvia, si è ribellata contro Ottaviano insieme a Lucio Antonio, ed è morta a causa di una malattia. Ora il triumvirato è minacciato da Sesto Pompeo, figlio del Pompeo avversario di Giulio Cesare. Pompeo ha raccolto una flotta, insieme ai pirati Menecrate e Mena e controlla la Sardegna e la Sicilia. A causa di questa situazione, Antonio è consapevole che deve tornare a Roma. Nonostante l’opposizione di Cleopatra, parte.
Tornato a Roma, Ottaviano convince Antonio a sposare sua sorella, Ottavia, per saldare i legame tra i due generali. Il luogotenente di Antonio, Enobarbo, sa che Ottavia non potrà appagarlo, dopo esser stato con Cleopatra. In un famoso passo, egli descrive il fascino di Cleopatra con un’iperbole: “L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere insipida la sua varietà infinita: le altre donne saziano i desideri che esse alimentano, ma ella affama di sé laddove più si prodiga: poiché le cose più vili acquistano grazia in lei, così che i sacerdoti santi la benedicono nella sua lussuria.”
In Egitto, Cleopatra viene a sapere del matrimonio di Antonio, e mette in atto una terribile vendetta nei confronti del messaggero che le riferisce la notizia. La sua collera si placa solo quando le sue cortigiane le assicurano che Ottavia è brutta, almeno secondo i canoni estetici elisabettiani: bassa, rozza, con il viso rotondo e con capelli sciupati.
Antonio e Cleopatra è una storia di amanti. Antonio e Cleopatra è il contenitore di evocazioni straordinarie e ricche di fascino; è l’incontro/scontro tra due culture, due mondi. E’ la visione sublime dell’eterna battaglia tra la potenza e la bellezza, la dedizione all’arma contro il gioire della mollezza del piacere. Antonio e Cleopatra è un invito a riflettere sul potere e sulle persone che lo gestiscono, esseri umani come noi, spinti dagli stessi impulsi, degradati dalle stesse debolezze. E se l’egoismo di un uomo si ripercuote su quelli che lo circondano, quello di un re si rovescia su tutto il suo popolo. Un popolo che in questa storia è totalmente assente, mai preso in considerazione quando bisogna decidere del destino del mondo e dell’umanità. Ma Antonio e Cleopatra è soprattutto una guerra interiore tra passione e ragione, la storia di una guerra violenta e sanguinosa
BOHEMIAN RHAPSODY
Partiamo subito dai numeri, perché alla recensione di Bohemian Rhapsody, il film ha già incassato quasi 500 milioni di dollari al boxoffice internazionale, diventando così il biopic musicale di maggior successo nella storia del cinema.
Numeri da far girare le testa che rendono chiara l’idea di quanto Freddie Mercury e i Queen siano amati, ancora oggi, in tutto il mondo.
Ciò che più stupisce è che sono soprattutto gli oltre 150 milioni incassati solo negli USA, nazione storicamente un po’ fredda nei confronti di una band così british nei suoni e nei modi.
A partire per esempio dalla celebre riservatezza del cantante morto nel 1991.
Per quanto possa sembrare discutibile a molti fan, un film del genere era fortemente desiderato dal grande pubblico, ma anche riportare Freddie in vita sul grande schermo è stata un’idea tanto geniale quanto rischiosa. È proprio questo contrasto a rendere così difficile questa recensione, perché se è vero che ci troviamo davanti a un indiscutibile successo, non possiamo di certo ignorare il metodo quantomeno discutibile che è stato scelto per ottenere questo risultato.
Quando fu annunciato il progetto di un film dedicato a Freddie Mercury, le prime reazioni dei fan furono unanimi: nessuno potrà mai interpretare il leggendario cantante così come nessuno potrà mai riuscire ad eguagliare il suo timbro vocale e la sua tecnica. Sono bastate poche immagini in costume e la conferma che nel film ci sarebbe stata la vera voce di Freddie (anche se mixata a quella del cantante canadese Marc Matel) a tranquillizzare i fan di tutto il mondo.
E il risultato finale, va detto, è veramente notevole, perché ci sono momenti in cui, da un punto di vista meramente estetico e iconografico, sembra davvero che quelli su schermo siano i Queen di quarant’anni fa. Non solo Rami Malek interpreta un ottimo Freddie Mercury, ma anche tutti gli attori – in primis Gwilym Lee che interpreta Brian May – riescono a raggiungere una somiglianza fisica e gestuale davvero impressionante. Una meraviglia audiovisiva che culmina nei 20 minuti finali del film in cui viene riprodotto in modo estremamente fedele l’intera partecipazione del gruppo al concerto del Live AID del 1985.
Le indimenticabili canzoni, il carisma naturale di Mercury e il contesto di una delle performance musicali più famose e celebrate di tutti i tempi permettono a Bohemian Rhapsody di chiudere in bellezza e di far uscire dalla sala molti fan con le lacrime agli occhi. E magari anche far nascere un’intera nuova generazione di appassionati. Ma diventa più che lecito chiedersi quanto però sia merito del film e quanto invece dei Queen e della loro musica. Soprattutto quando il resto del film, e quindi tutte le parti non relative alle canzoni e alla maestria musicale, si trascina a fatica in più di un’occasione e inoltre tradisce, più e più volte, quella pretesa di verosimiglianza su cui invece sembra aver costruito i momenti più riusciti.
Gershwin e dintorni con Gabriele Naretto
Gabriele Naretto è nato a Torino nel 1991. Fin da piccolissimo ha imparato a esprimersi con la musica sotto la guida della cugina Anna, insegnante alla Hochschule für Musik di Francoforte. A otto anni ha cominciato a studiare pianoforte a Torino con Anna Maria Bordin, già docente al Conservatorio di Pavia, la quale lo ha seguito fino al raggiungimento del diploma nel 2013. Molto prima però, da quando aveva dieci anni, ha iniziato a esibirsi in concerto con una scelta di repertorio mista, che accosta il classico alla musica del Novecento, in particolare americana, e con impegni che vanno dal récital solistico all’accompagnamento di attori in teatro e alla musica da camera. Ha suonato per esempio al Piccolo Regio di Torino accompagnando giovani attori e all’Auditorium di Milano in una serata con Franco Cerri dedicata ad Astor Piazzolla.
Sempre prima di conseguire il diploma si è avvicinato al jazz e all’improvvisazione, territori che nel tempo hanno preso sempre più spazio nella sua attività e che lo hanno visto suonare, fra l’altro, a Pechino nel 2010 accanto a Luca Pedeferri, nell’ambito delle manifestazioni che hanno accompagnato i lavori dell’Isme (Institute for Multi-Sensory Education).
Gabriele Naretto è affetto da autismo e la musica è la sua grande porta aperta verso il mondo. Con i suoi concerti e la sua attività nell’ambito della musica d’insieme, specialmente nel jazz, è anche un esempio e un incoraggiamento per tutti coloro che vedono nella pratica dell’arte e della musica un mezzo diverso per interagire con gli altri. La sua attività concertistica ha perciò, tra gli altri, anche il valore della testimonianza nella prospettiva di una maggiore sensibilizzazione e conoscenza.
Gabriele Naretto ha suonato per RAI1 nella trasmissione Storie vere e alla Sala Sinopoli del Parco della Musica, a Roma, in occasione della «Giornata mondiale per l’autismo» (2 aprile 2015). Nel 2016 ha suonato a RAI2 nella trasmissione I fatti vostri e al Palazzo del Quirinale in occasione dell’incontro del Presidente della Repubblica con le associazioni che si occupano della disabilità mentale. Per due anni, fino alla fine del 2014, ha frequentato il corso di musica della Roehampton University di Londra seguito da Adam Ockelford con lo scopo di sviluppare le capacità di improvvisazione e da quattro anni frequenta, presso la Jazz School Torino, i corsi di pianoforte di Aldo Rindone e quelli di orchestra jazz di Pino Russo.
REQUIE PER L.
La nuova opera di Cassol prende il via dal Requiem di Mozart nella partitura originale e da cui sono state eliminate le parti aggiunte dopo la morte di Mozart e che qui sono sostituite da un’inedita stesura ispirata da musiche africane. Le note mozartiane vengono scomposte e goccia dopo goccia, nota dopo nota si intersecano in un insolito ma entusiasmante scambio tra i ritmi afro e i canti di protesta africani, dove le imponenti e vigorose voci dei quattro cantanti congolesi si alternano con i tre straordinari cantanti d’opera sudafricani e il tenore in un inatteso e dinamico legame tra due culture totalmente differenti.
Le immagini in bianco e nero degli ultimi momenti della vita di una donna, Lucy, scorrono sul fondale: la fatica degli ultimi momenti, l’assopimento, la bocca secca, le carezze degli affetti più cari e poi il sonno, quello dal quale non ci si sveglia più, con un orsacchiotto in grembo che conclude il ciclo di un’esistenza.
Non c’è niente di tragico in quelle immagini, fortissime nella loro naturalità. Non c’è niente di tragico nemmeno nel Requiem di Mozart, composizione estrema e incompiuta, che Alain Platel e Fabrizio Cassol scelgono come punto di partenza della loro ultima creazione, Requiem pour L., che ha aperto a Berlino alla Haus der Berliner Festspiele un lungo tour che ha toccato e toccherà varie piazze europee come Monaco, Bruxelles, Londra, Anversa e Amsterdam e ancora Torino Danza e Reggio Emilia.
Cassol è partito dal manoscritto originale mozartiano, sopprimendo le estensioni e i completamenti apocrifi – e il dialogo fecondo con il gruppo di straordinari musicisti, guidati in scena dal congolese Rodriguez Vangama (coadiuvato alla chitarra elettrica da Kojack Kossakamvwe), che assembla sonorità inconciliabili dell’accordeon di João Barradas e del flicorno basso di Niels Van Heertum, con i likembe di Bouton Kalanda, Erick Ngoya, Silva Makengo, con il collante ritmico delle percussioni del formidabile Michel Seba.
Ciò che restituisce più compiutamente la sintesi musicale di questo dialogo fra opposti che si fonde in una armonia naturale è la doppia triade mozartianamente massonica di vocalist – quelli della tradizione lirica occidentale, che sono Rodrigo Ferreira, Nobulumko Mngxekeza e Owen Metsileng e i tre eccezionali performer africani Fredy Massamba, Boule Mpanya e soprattutto Russell Tshiebua.
Cerimoniere sensibile di questa insolita liturgia funebre è Alain Platel, autore anche della scena nera che richiama la distesa irregolare di sepolcri che rimandano al monumento berlinese all’olocausto. Rinuncia al suo ruolo di coreografo ma non alle coreografie, spontanee, che proprio davanti all’immagine reale della morte, diventano l’espressione più forte della celebrazione della vita.