Qualche tempo fa vi avevo annunciato che canto in un coro polifonico in un piccolo comune della provincia torinese. Il 2 giugno nel contesto del Maggio Musicale Bruinese ci siamo nuovamente esibiti, questa volta, con un programma strepitoso dedicato al grande maestro Antonio Vivaldi.
Le notizie che riguardano la vita di Vivaldi sono imprecise, confuse e, qualche volta, poco verosimili; tuttavia, su questa impercettibile trama si può ricostruire la sua storia. Sebbene Vivaldi sia nato e vissuto nella Repubblica di Venezia, il suo cognome è di origine genovese. Il piccolo Antonio venne battezzato a due mesi dalla nascita per una grave malattia (“per pericolo di morte”, giustificano i genitori). Questa circostanza spiega forse quella “strettezza di petto” che tormentò il musicista tutta la vita, e forse la stessa decisione paterna di far abbracciare al figlio, sempre gracile e malaticcio, la carriera ecclesiastica. Cominciò a studiare il violino in tenera età, sotto la guida del padre, e pare che, a soli dieci anni, fosse già in grado di sostituirlo come violinista nell’orchestra della cappella di San Marco. In ogni caso tutte le informazioni riguardanti l’educazione di Antonio sono nebulose. Ad esempio, non è mai stato possibile sapere se egli abbia studiato in Seminario o privatamente. Tuttavia conosciamo con precisione le date e i “tempi” in cui ricevette le sacre ordinazioni. Attraverso i vari gradi di Ostiario (19 settembre 1693), Lettore, Esorcista, Accolito, Suddiacono, Diacono, il 24 marzo 1703 venne ordinato sacerdote. Antonio Vivaldi aveva solo venticinque anni ed era di salute cagionevole. Non aveva dunque i requisiti migliori per affrontare una vita di rinunce e di sacrifici come quella che il sacerdozio esige. Infatti, dopo sei mesi soltanto, ottenne di essere dispensato dal dir messa, pur non lasciando l’abito talare. Questo fatto diede adito a pettegolezzi e contribuì a creare leggende intorno alla figura del Prete Rosso (come egli veniva chiamato per il colore dei capelli).
Il più noto aneddoto è quello raccontato dal conte Grégoire Orloff: “Una volta che Vivaldi diceva la Messa, gli viene in mente un tema di fuga. Lascia allora l’altare sul quale officiava, e corre in sacrestia per scrivere il suo tema; poi torna a finire la Messa. Viene denunciato all’Inquisizione, che però fortunatamente lo giudica come un musicista, cioè come un pazzo, e si limita a proibirgli di dire mai più Messa”. Era un modo suggestivo per giustificare l’abbandono della vita sacerdotale; ma lo stesso Vivaldi diede, molti anni dopo, una diversa delucidazione al fatto, in una lettera al marchese Guido Bentivoglio del 16 novembre 1737: “Sono venticinque anni ch’io non dico messa né mai più la dirò, non per divieto o comando, come si può informare Sua Eminenza, ma per mia elezione, e ciò stante un male che io patisco a nativitate, pel quale io sto oppresso. Appena ordinato sacerdote, un anno o poco più ho detto messa, e poi l’ho lasciata avendo dovuto tre volte partir dall’altare senza terminarla a causa dello stesso mio male. Ecco la ragione per la quale non celebro messa”. In un’altra lettera descrive il suo male a fosche tinte: “Io vivo quasi sempre in casa, e non esco che in gondola o in carrozza, perché non posso camminare per male di petto ossia strettezza di petto”. Ma c’è una contraddizione evidente tra le affermazioni del musicista e la vita che conduce. Come è possibile che egli non fosse in grado di camminare e di stancarsi, se riusciva ad affrontare un’attività così impegnativa e faticosa come quella di compositore e di concertista?
Il 28 luglio 1741 “il molto Reverendo Sig. Antonio Vivaldi, prete secolare” moriva a Vienna. Misterioso resta il motivo dell’ultimo viaggio nella capitale austriaca. In un certo senso, misteriose restano anche le cause della morte. Poi, come in una favola, tra il 1926 e il 1930 Vivaldi rientrò nella grande musica, grazie al lavoro del caso più che a quello che i filosofi chiamano il senso della storia, chiedendosi se esista un disegno, uno scopo, o un principio guida nel processo storico e quale ruolo vi occupi l’essere umano. Le oltre 500 opere – concerti, sinfonie e sonate – riacquistarono voce. I suoi principi formali ritornarono a misurarsi con quelli del barocco.
Era il 1911: un anno chiave per la rinascita dello studio dell’opera vivaldiana. Il disinteresse con cui il musicista era stato considerato fino ad allora, si mutò improvvisamente nel più ardente e generoso entusiasmo. Nessuno potrà mai spiegare esaurientemente i motivi del silenzio che ha circondato, per quasi duecento anni, l’opera di Vivaldi. Questo silenzio ci sorprende maggiormente se consideriamo che il musicista godette, nel suo tempo, di una celebrità veramente eccezionale. All’inizio del Settecento, il suo nome era noto non solo a Venezia, ma in tutta Italia, in Germania, in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra. I centri musicali più aggiornati possedevano le edizioni e i manoscritti dei suoi concerti. D’altro canto, basterebbe considerare l’umiltà e la partecipazione con cui Bach si avvicinò alla sua musica per avere una prova indiscussa della considerazione di cui Vivaldi godeva allora, tanto più che Bach trascrisse i suoi concerti prima che venissero stampati dagli editori di Amsterdam. Impossibile spiegare i motivi del silenzio che ha delimitato, per circa duecento anni, l’opera di Vivaldi. Questo silenzio ci sorprende in maggior misura e se teniamo presente che il musicista godette, nel suo tempo, di una celebrità veramente eccezionale. Ma, per una strana beffa del destino, la fama che, a differenza di altri artisti, Vivaldi raggiunse presto e conservò per lungo tempo, svanì misteriosamente durante gli ultimi anni della sua vita, molto probabilmente, quando i gusti del pubblico italiano cominciavano a mutare. Da allora egli scomparve da Venezia e non si ebbero più sue notizie. Soltanto da pochi anni sappiamo che morì a Vienna povero e solo.
E ora passiamo al concerto.
Il Salterio “libro della lode”
In ebraico il libro dei Salmi è chiamato Sefer Tehillim, che significa “Libro di lodi”. Questo presupposto ci permette di capire all’istante che, sebbene le composizioni poetiche che troviamo nel Salterio non siano tutte di lode, nondimeno la lode è un aspetto basilare del libro, meglio, potremmo affermare, il suo traguardo, la sua meta.
“In exitu Israel de Aegypto” è l’incipit del salmo 113 (114) contenuto nel libro dell’Esodo, inerente la fine della schiavitù ebraica in Egitto, ad opera di Dio, conclusasi con il ritorno nella terra promessa. Anticamente si cantava nel trasportare il corpo di un defunto nel luogo sacro, quasi a indicare, allegoricamente, il mistico viaggio del cristiano, prefigurato dagli Ebrei, verso la Gerusalemme celeste.
Nella Divina commedia è intonato (nel “lieve legno”, cioè la barca, guidata dall’angelo nocchiero, che trasporta gli spiriti salvi dalla foce del Tevere alla spiaggia), dalle anime che devono ancora giungere nella spiaggia. La spiaggia è un tratto di costa pianeggiante situato ai piedi della montagna del Purgatorio, più precisamente nell’Antipurgatorio, ove saranno smistate nelle varie balze da Catone l’Uticense. Venne scelto da Dante perché le anime destinate alla salvezza, come gli ebrei, si sono liberate dalla schiavitù terrena per poter giungere alla libertà eterna.
Il salmo 113 della Vulgata, In exitu Israel, che fonde il 114 e il 115 della tradizione ebraica, dal contenuto molto affine, è uno dei più importanti salmi della salvezza perché rievoca l’uscita di Israele dall’Egitto, segnata da tanti prodigi divini, da una nuova e trascendente teologia in contrapposizione alla “barbarica” e rozza idolatria, dalla fede nello spirito anziché nelle immagini. Anche per la ridondanza del testo, Vivaldi sceglie una struttura abbastanza uniforme, con il coro che procede quasi sempre omoritmicamente e gli archi che ne abbelliscono il cammino.
Questo salmo, che appartiene ad un gruppo di salmi composti per la domenica di Pasqua, alla Pietà, nel 1739, sopravvive non solo nel Fondo Foà-Giordano della Biblioteca Nazionale di Torino, ma anche nei pochi frammenti del repertorio della Pietà, attualmente conservati al Conservatorio di Musica “Benedetto Marcello” di Venezia.
In exitus Israel, RV 604 salmo per coro, archi e basso continuo
Il compositore fa del suo meglio per mantenere viva la dinamica musicale di questo movimento di 97 misure. Varia i modelli di accompagnamento dei violini, varia la tonalità in maniera efficace, anche in modo sorprendente, e ricorre a diversi tipi di tessitura vocale (senza mai, tuttavia, rinunciare alla onnipresente omofonia). Imitando la struttura dei versetti del salmo, con grande intelligenza drammatica, Vivaldi adotta nello stesso tempo uno stile responsoriale, dove l’intero coro risponde ai soprani soli, in due punti: nel primo si dimostra la fatuità degli idoli (“hanno bocca e non parlano… hanno occhi e non vedono”), nel secondo l’infinita potenza del Signore, che tanto supera le speranze degli uomini.
Gloria RV 589 per soli, coro e orchestra
Il Gloria in Re Maggiore RV 589 per soli, coro e orchestra fu una delle prime composizioni vocali di musica sacra composte da Vivaldi tra il 1713 e il 1714. In questo periodo Vivaldi prestava la sua opera all’Ospedale della Pietà di Venezia, un orfanotrofio femminile, sostituendo l’ex Direttore del Coro Francesco Gasparini che dovette lasciare l’incarico per malattia e aveva il compito insieme al maestro di canto Pietro Scarpati di comporre nuove musiche per il Coro della Pietà. Questo Gloria è una composizione che va considerata come un capolavoro della musica sacra. É di una bellezza che va oltre ogni immaginazione: esuberante e pieno di carattere. Dimenticato per anni, fu riscoperto nel 1920 da Alfredo Casella, compositore e pianista appassionato della musica vivaldiana, che lo ripropose al pubblico nel 1939 a Siena durante “La Settimana di Vivaldi”.
Il Gloria RV 589 di Vivaldi è diviso in dodici parti, tutte molto diverse tra loro sia per musicalità, tonalità, e organico strumentale.
La composizione si apre con il Gloria in Excelsis Deo e si conclude con la fuga sulle parole Cum Sancto Spiritu che sembra sia un adattamento del movimento conclusivo di un altro Gloria composto da un contemporaneo di Vivaldi, Giovanni Maria Ruggeri, di Verona nel 1708. Non si conosce esattamente il motivo per cui Vivaldi avrebbe rielaborato la composizione di un collega, si pensa perché non molto preparato sull’uso compositivo di questi stili in quanto non aveva avuto una vera e propria formazione sulla Musica Sacra.
Tutte le parti solistiche sono affidate a voci femminili, visto che il destinatario della composizione era principalmente il Coro dell’orfanotrofio e pare che le ragazze dell’istituto suonassero anche tutti gli strumenti dell’orchestra come testimonia uno scritto del filosofo e politico Charles de Brosses: “La musica eccezionale è quella degli Ospedali dove le “putte” cantano come gli angeli e suonano il violino, l’organo, l’oboe, il violoncello, il fagotto; insomma non c’è strumento che le spaventi .”
Ora un breve cenno sulle esibizioni strumentali.
La produzione strumentale di Vivaldi comprende diversi lavori intitolati Sinfonia, ad essi si possono aggiungere, come composizioni affini, una cinquantina di Concerti, conservati principalmente nelle raccolte Foà e Giordano di Torino, i quali recano il titolo di Concerto a quattro o di Concerto ripieno.
Sinfonia in do maggiore per archi e basso continuo, RV 112
Il basso continuo (detto anche basso cifrato o numerato), strettamente associato con tutti i generi di musica del periodo barocco, è l’accompagnamento strumentale che conduce il discorso d’insieme mediante l’elaborazione estemporanea di accordi, seguendo la traccia della parte più grave della partitura. Il basso continuo era affidato ad uno strumento ad arco che eseguiva solo la nota scritta (o un suo raddoppio all’ottava inferiore, se ad esempio si usa un contrabbasso), e ad uno strumento polifonico (quasi sempre clavicembalo o organo) sul quale l’esecutore suonava anche gli accordi.
(da Wikipedia L’enciclopedia libera)
Come tutte le Sinfonie di Vivaldi, la Sinfonia in do maggiore ha il taglio del concerto e dell’ouverture napoletana, con la suddivisione in due movimenti rapidi intercalati da un movimento lento. L’Allegro, il cui tema è basato sull’accordo maggiore fondamentale, ha il carattere di una franca affermazione tonale tipicamente vivaldiana. L’Andante, in minore, è un brano dall’incedere semplice e pacato. Il brevissimo Presto conclude il Concerto con due sezioni simmetriche di sedici battute ciascuna. La strumentazione è per archi e cembalo.
Concerto in sol maggiore per archi e basso continuo
“Alla rustica”, RV 151
La composizione, fatto piuttosto raro nella produzione del «Prete rosso», non comporta parte solistica. Nulla è stato toccato dal trascrittore nella partitura propriamente detta; l’unica aggiunta è stata quella del cembalo la cui parte, secondo l’uso dell’epoca, non è realizzata nell’originale. Il nome al concerto è dato, naturalmente, dall’andamento del primo tempo (…). Si tratta di una danza briosissima che, dopo uno sviluppo abbastanza ampio, passa rapidamente in minore.
Il Concerto detto Alla rustica appartiene al gruppo dei Concerti vivaldiani senza strumento solista, gran parte dei quali composta per fornire alle fanciulle dell’Ospedale della Pietà brani di facile esecuzione. Il Concerto Alla rustica, era destinato forse a essere eseguito in chiesa. Il titolo sembra alludere alla relativamente sommaria costruzione formale del Concerto, basato su un inciso fondamentale più volte ripetuto e articolato nella successione di un tempo veloce, uno lento e di nuovo uno veloce tipica del Concerto da camera e dell’Ouverture all’italiana. Il Concerto Alla rustica fu una delle prime composizioni di Vivaldi a essere riscoperta dalla cultura musicale italiana del Novecento.
Georg Philipp Telemann,
oltre ad una sterminata produzione musicale che ancora oggi non è possibile dominare completamente, ha lasciato un prezioso carteggio epistolare con alcuni dei più significativi rappresentanti del mondo artistico e culturale tedesco della prima metà del Settecento e tre saggi autobiografici che costituiscono una fonte di grande valore per avere informazioni sulla sua educazione, carriera, mentalità e gusto. Telemann ricorda «dal momento che è sempre piacevole fare qualcosa di nuovo, mi misi a scrivere anche dei concerti. Devo riconoscere che essi non mi sono mai andati particolarmente a genio sebbene ne avessi già composti un numero non trascurabile…». Il senso della frase che, estrapolata dal suo contesto, potrebbe apparire sorprendente, viene chiarito poco più avanti dallo stesso autore, il quale sembra indirizzare le sue critiche non tanto al genere preso in sé, quanto al virtuosismo fine a se stesso, privo cioè di una reale legittimazione melodica e di un sufficiente equilibrio armonico, del concerto a ritornelli di provenienza italiana.
Sonata per Tromba in Re maggiore TWV 44:1
Il Concerto in re maggiore per tromba, archi e continuo è un esempio classico di concerto in stile veneziano in tre movimenti, dal momento che l’Adagio introduttivo, nel quale la tromba solista mette in evidenza le sue straordinarie capacità di «cantare», va considerato come un grande «levare» introduttivo per l’Allegro successivo.

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